Il virus si è diffuso in pochi mesi in 34 diversi allevamenti di bovini in 9 diversi Stati – creando un rischio elevato per nuove mutazioni che minacciano l’uomo

Cambogia, febbraio 2024: un bambino di 9 anni nella provincia nordoccidentale di Kratie inizia ad accusare gravi sintomi influenzali: febbre, difficoltà respiratorie, svenimenti. Nell’arco di pochi giorni perde la vita. Secondo le autorità locali, aveva consumato un piatto a base di carne di pollo e anatra, preparato dai genitori con degli animali del proprio allevamento da cortile, colpito da influenza aviaria. Dopo pochi giorni anche il fratello di 16 anni è risultato positivo a un ceppo altamente patogeno di influenza aviaria. 

Questo caso è il primo decesso umano registrato nel 2024 per l’epidemia di aviaria che da alcuni anni sta imperversando tra animali selvatici e allevati in ogni parte del Pianeta, persino in Antartide. Solo in Cambogia altre sei persone sono morte nel 2023, tutte esposte a dei volatili affetti dal virus. Secondo i più recenti dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dal 2021 ad oggi sono state accertate 28 infezioni in esseri umani del virus dell’aviaria, A(H5N1), in molti casi fatali, quasi sempre associati a una stretta vicinanza con degli avicoli allevati. Alcuni di questi casi sono stati registrati in Europa (due in Spagna, cinque nel Regno Unito) e due negli Stati Uniti, anche se con sintomatologie lievi.

Nonostante la perdita di vite umane, la stessa Oms ancora nei giorni scorsi ha ribadito che “ad oggi, sulla base delle informazioni disponibili, l’Oms valuta un basso rischio per la salute pubblica legato all’A(H5N1), e un rischio di infezione da basso a moderato per le persone esposte a uccelli o animali infetti o ad ambienti contaminati.”

Di fatto però l’asticella di allarme tra le autorità è salita nei giorni scorsi per un’altra vicenda eclatante. A marzo 2024 alcuni allevatori di mucche da latte in diverse località degli Stati Uniti notano delle stranezze nei propri animali. Alcuni iniziano a mangiare e bere di meno e il latte che producono ha un aspetto insolito: più denso, di colore più scuro.

Alcune settimane dopo, il 30 aprile, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti d’America (Usda) conferma “la presenza del virus di influenza aviaria ad alta patogenicità” in 34 allevamenti di mucche da latte in 9 Stati americani (Kansas, Idaho, Michigan, New Mexico, North Carolina, Ohio, South Dakota, Texas, Colorado).

L’annuncio ha una portata esplosiva: il virus si è dimostrato capace di contagiare dei mammiferi allevati e di diffondersi da un allevamento a un altro, presumibilmente attraverso lo spostamento del bestiame. Nello stesso mese di aprile, il dipendente di un allevamento di bovini contrae la malattia. Anche se l’uomo guarisce dopo pochi giorni, questo è il primo caso noto di “spillover” dell’aviaria da un mammifero verso l’essere umano. A peggiorare le cose, alla fine di aprile la Food and Drug Administration degli Stati Uniti avvisa di aver trovato tracce del virus in alcuni campioni di latte in commercio, “con una percentuale maggiore di risultati positivi provenienti dal latte in aree con allevamenti infetti.”

Sale l’allerta

“Il caso dei bovini ha aperto una serie di questioni legate alla suscettibilità dei ruminanti verso questi virus,” afferma a Huffington Post Calogero Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo (EURL) per l’influenza aviaria, con sede a Padova. Secondo l’esperto, “la presenza del virus nel latte genera preoccupazione perché si tratta di un alimento comune, e il fatto che sia stato trovato anche in bottiglie all’interno dei supermercati ha fatto pensare che in alcune fasi dell’infezione anche animali asintomatici possano essere positivi al virus.”

Dopo la scoperta del virus nei bovini, le autorità statunitensi hanno preso diversi provvedimenti d’urgenza, vietando lo spostamento di capi tra diversi Stati e avviando una serie di verifiche sugli alimenti in commercio, in particolare campioni di latte, di carne e persino di latte in polvere. La Food and Drug Administration ha “fortemente sconsigliato il consumo di latte crudo e raccomandato che l’industria non produca o venda latte crudo o prodotti a base di latte crudo,” ritenendo invece sicuri i prodotti pastorizzati.

Nel frattempo le autorità internazionali sono entrate in fibrillazione: “Le evidenze che arrivano dagli Stati Uniti indicano che è probabile che si sia verificata una trasmissione laterale tra i bovini. Finora le vie, le modalità di trasmissione e la durata della diffusione virale nelle mucche rimangono oggetto di studio,” hanno detto Oms, l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e l’Organizzazione mondiale per la sanità animale (Woah), in una dichiarazione congiunta presentata ai media a fine aprile. Le agenzie delle Nazioni Unite hanno fatto riferimento anche alla presenza del virus nel latte in commercio: “Le implicazioni di ciò in termini di trasmissione sono attualmente oggetto di studio, così come il ruolo della pastorizzazione nell’inattivazione del virus,” hanno detto.

L’Europa dal canto suo sta monitorando l’evolversi della situazione, anche se nessuna misura straordinaria per la vigilanza dei bovini o degli alimenti è stata intrapresa. “Siamo consapevoli del ritrovamento di particelle di influenza aviaria in latte venduto negli Stati Uniti,” ha detto a HuffPost Italia un portavoce dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). “Le infezioni dei bovini da latte negli Stati Uniti riguardano un ceppo di aviaria A(H5N1) che non è stato rilevato in Europa. Stiamo monitorando attentamente la situazione e la sua possibile evoluzione.”

Un’emergenza preannunciata

L’attuale epidemia di aviaria colpisce uccelli selvatici e avicoli allevati dai primi anni 2000, ma negli ultimi anni ha cambiato passo, destando la preoccupazione degli scienziati. Già un anno fa avevamo raccolto testimonianze di scienziati in Europa e negli Stati Uniti, che mettevano in guardia la politica sul rischio pandemico della malattia, divenuta “endemica” – ovvero presente tutto l’anno, non più stagionale – in tutti i Paesi dell’Occidente. 

In Europa il virus ha colpito in modo particolarmente duro tra il 2022 e il 2023, quando le autorità avevano parlato della “peggiore epidemia di aviaria di sempre”, con oltre 7mila focolai tra uccelli selvatici e avicoli allevati (polli e tacchini in particolare) e oltre 52 milioni di animali abbattuti per contenere il virus. Anche in Europa l’anno scorso il virus ha infettato diversi allevamenti di mammiferi, in particolare di visoni e volpi, allevati in Spagna e Finlandia per la produzione di pellicce. Nell’ultimo anno l’epidemia ha colpito più duramente oltreoceano: negli Stati Uniti dal 2022 ha infettato 90 milioni di avicoli e oltre 9mila uccelli selvatici.

I virus influenzali sono nella top ten dei candidati ad essere il motore di una prossima pandemia,” afferma Terregino. “Più questi virus sono presenti, in natura e in contesti di animali domestici con vicinanza con l’uomo, più il rischio di spillover e di eventi epidemici e pandemici è alto”, ha detto. 

In una mail a HuffPost, un portavoce della Commissione Europea ha riferito che “la Commissione ha già preso in considerazione la minaccia di una pandemia di influenza aviaria negli esseri umani nel 2019, quando ha organizzato un contratto di appalto congiunto firmato con Seqirus e GSK per i loro vaccini contro l’influenza pandemica, rispettivamente Foclivia e Adjupanrix. Questo appalto congiunto garantisce che le aziende forniranno vaccini pandemici adattati agli Stati membri partecipanti nel caso in cui un ceppo di influenza aviaria causi una pandemia.”

Nei primi giorni di aprile anche l’Efsa, insieme al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), ha pubblicato un report per valutare il rischio che l’attuale epidemia di aviaria potesse sfociare in pandemia. Pur ribadendo un rischio tra basso e basso/moderato rispetto al salto di specie verso l’uomo, le agenzie hanno avvisato che se il virus “dovesse acquisire la capacità di diffondersi in modo efficace tra gli esseri umani,  potrebbe verificarsi una trasmissione su larga scala, per la carenza di difese immunitarie contro i virus H5 negli uomini.”

Un tema di trasparenza

Terregino elenca una serie di misure di prevenzione messe in atto in Europa nel comparto zootecnico, ritenuto tra i responsabili della proliferazione del virus, dall’uso obbligatorio di vaccini negli allevamenti in Francia a misure per ridurre la densità negli allevamenti in Italia. L’esperto però solleva un tema di trasparenza sul modo in cui l’epidemia continua a evolvere anche in altri Paesi su cui abbiamo poche informazioni.

“Non sappiamo bene cosa stia succedendo in altri contesti dove questi virus circolano,” afferma il ricercatore, citando il caso della Cina: nel 2023 non ha dichiarato focolai nei propri allevamenti avicoli, “eppure nell’ultimo anno in Cina sono stati segnalati due casi umani, di cui uno mortale,” afferma l’esperto. “Il che ci fa pensare che non ci sia assenza, perché l’uomo è una sentinella significativa del virus.”

Una questione di poca trasparenza è stata sollevata da alcuni ricercatori anche nei confronti delle autorità americane, accusate di aver diffuso i dati sulle infezioni negli allevamenti bovini con grave ritardo e in modo frammentato.

“Il ceppo di influenza aviaria ad alta patogenicità si è diffuso silenziosamente per mesi nel bestiame negli Stati Uniti,” ricostruisce un articolo su Nature. Secondo la rivista, le analisi condotte da diversi ricercatori indipendenti farebbero pensare che le prime infezioni di bestiame sarebbero avvenute già tra fine dicembre e inizio gennaio, iniziando “probabilmente con un salto del virus da un uccello infetto a una mucca.” 

Secondo questa ricostruzione, i consumatori negli Stati Uniti sarebbero stati esposti per mesi a prodotti alimentari provenienti da animali infetti ma asintomatici. I ricercatori, secondo Nature, criticano anche il Dipartimento per l’agricoltura statunitense per aver rilasciato dati incompleti “che non includono informazioni cruciali per far luce sulle origini dei focolai e sull’evoluzione.”

 

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