L’Italia utilizza ogni anno 3,7 milioni di tonnellate di farina di soia per le produzioni animali, di cui solo 689 mila tonnellate sono di origine nazionale, tutto il resto (3,2 milioni di tonnellate) è importato, principalmente da Argentina, Brasile, Stati Uniti, Paraguay.

 

Il 2 dicembre 2019 una nave con un carico di 31 mila tonnellate di soia raggiunge i canali del porto commerciale di Ravenna e attracca di fronte al grande stabilimento della multinazionale Bunge. La nave proviene dal porto di Vila do Conde Barcarena, in Pará, nella regione amazzonica del Nordest del Brasile. Il carico che ha in pancia proviene quasi tutto (30mila tonnellate) dagli stabilimenti della stessa Bunge, che si trovano tra le regioni del Cerrado e dell’Amazzonia brasiliana.

La scena non ha niente di eccezionale: Bunge è il principale esportatore di soia dal Brasile, destinata soprattutto alla Cina e all’Europa, Italia compresa, e decine di carichi del genere raggiungono ogni anno lo stabilimento ravennate. La soia che raggiunge l’impianto Bunge di Porto Corsini viene lavorata e ridotta in farina e poi spedita via camion ai vari clienti, in particolare allevatori e mangimisti del centro e nord Italia: “In Italia, Bunge è uno dei principali produttori di alimenti per animali”, afferma Saverio Panico, Responsabile Commerciale di Bunge Italia. “Il 70 per cento del nostro business corrisponde a farine proteiche e il resto a olii raffinati, imbottigliati o sfusi e biodiesel”.

L’Italia è fortemente dipendente da materie prime estere per la produzione di mangimi, in particolare per gli alimenti ad alto contenuto proteico come la soia, su cui si basa il sistema di allevamento intensivo. In Italia nel 2019 sono stati prodotti 14,7 milioni di tonnellate di mangimi, destinati soprattutto agli allevamenti di suini (11 milioni di macellazioni nel 2018), polli da carne (534,3 milioni macellati nel 2018), galline ovaiole (71,4 milioni allevate nel 2018), tacchini (27 milioni nel 2018), bovini (5,9 milioni allevati in Italia nel 2018).

L’impatto della soia – L’espansione delle coltivazioni di soia è una delle principali cause della deforestazione in Sud America. Poche settimane prima che la nave diretta a Ravenna lasciasse le coste brasiliane, le immagini dell’Amazzonia in fiamme giravano in tutto il mondo: una stagione record degli incendi in Brasile nel 2019 (89 mila roghi in Amazzonia, 64 mila nel Cerrado secondo i dati Istituto di ricerca spaziale brasiliano INPE), replicata nel 2020 (99 mila incendi in Amazzonia e 62 mila nel Cerrado – dati aggiornati al 24 novembre).

Secondo un’inchiesta internazionale coordinata da TBIJ e pubblicata nei giorni scorsi, la stessa Bunge negli ultimi anni ha comprato soia da almeno sette fornitori in Brasile, alcuni in zona amazzonica altri nel Cerrado, collegati a una deforestazione complessiva di oltre 92 mila ettari tra il 2015 e il 2020, di cui quasi 15mila tra agosto 2019 e luglio 2020. L’analisi si basa sui dati incrociati dei sistemi di monitoraggio Prodes e Rapid Response, che analizzano il progredire della deforestazione attraverso l’analisi periodica delle immagini satellitari.

Bunge ha confermato agli autori del monitoraggio di avere rapporti commerciali con almeno tre di questi fornitori, anche se in alcuni casi ha precisato che “le aree deforestate non sarebbero state utilizzate per produrre nuova soia”. Nel caso di Serra Branca Agrícola, una fazenda che produce soia in Piauì, il sistema di monitoraggio satellitare ha registrato 15mila ettari di Cerrado deforestati tra il 2015 e il 2020, di cui 4,111 tra il 2019 e il 2020. Bunge ha ammesso di avere “rapporti diretti o indiretti” di approvvigionamento con questo fornitore.

In una lettera di replica inviata al Corriere la multinazionale sostiene di “non approvvigionarsi di soia da aree deforestate illegalmente” e di “essere impegnata per una filiera sostenibile”. “Nel Cerrado monitoriamo i raccolti di oltre 9mila aziende su una superficie di 14 milioni di ettari”, scrive l’azienda, che sul proprio sito ha annunciato un impegno alla deforestazione zero entro il 2025. “L’impegno contro la deforestazione è stato un pilastro della nostra attività in Sud America sin da quando è stato lanciato nel 2015”.

Rispondendo a una domanda specifica, l’azienda è stata invece evasiva sulla propria disponibilità a istituire una nuova “moratoria della soia” nel Cerrado brasiliano, simile a quella creata in Amazzonia contro la deforestazione.

Chi mangia più soia – Secondo l’ultimo rapporto Assalzoo, l’Italia utilizza ogni anno 3,7 milioni di tonnellate di farina di soia per le produzioni animali, di cui solo 689 mila tonnellate sono di origine nazionale, tutto il resto (3,2 milioni di tonnellate) è importato, principalmente da Argentina, Brasile, Stati Uniti, Paraguay.

L’industria che consuma la maggior parte della soia (quasi il 50 per cento) è quella avicola: “Quasi l’80 per cento dell’impatto sul global warming è legato all’acquisto di alimenti proteici”, afferma Jacopo Bacenetti, ricercatore dell’Università di Milano, citando uno studio dell’ateneo sull’impatto dell’allevamento di polli da carne e galline ovaiole nel nostro Paese. “Per alimenti proteici intendiamo in particolare farina di soia di derivazione sudamericana, in parte coltivata  su suoli su cui precedentemente c’era la foresta”, afferma il ricercatore.

Il motivo per cui la filiera avicola consuma molta soia sono i numeri elevatissimi: 534 milioni di polli da carne macellati ogni anno e altri 100 milioni di volatili, tra galline ovaiole e tacchini. “Noi serviamo l’industria mangimistica”, ci racconta Enrico Zavaglia, responsabile commerciale semi oleosi per CerealDocks, azienda Italiana che si occupa di import e lavorazione cereali e semi oleosi, e che lavora sia soia nazionale che di importazione. Secondo Zavaglia: “Fatto 100 il consumo di mangime in Italia, credo che il 40 per cento possa essere destinato alla filiera del pollo, e l’altro 60 per cento se lo dividono metà la filiera bovino, e metà la filiera suino. Poi ci sono altre filiere, come gli ovicaprini, ma non pesano poi così tanto nei numeri del totale mangime”.

Nel 2018 una ricerca di Profundo, una società di consulenza olandese, ha valutato l’utilizzo di soia per gli allevamenti: “Calcolando i consumi in Unione Europea, Svizzera e Norvegia, nel 2017, abbiamo stimato che circa il 67 per cento (o 20,8 milioni di tonnellate) della farina di soia per l’allevamento animale fosse usato per la produzione di pollo, carne di maiale e manzo”, ha detto Barbara Kuepper, autrice dello studio. “Di questa farina di soia usata per la carne, il pollo consuma la fetta maggiore, circa il 60 per cento”.

 

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