Non si ferma con la primavera l’epidemia di aviaria più lunga mai registrata. Il ruolo degli allevamenti intensivi, i rischi per la salute e i costi ambientali, sociali e economici.
L’epidemia di influenza aviaria che imperversa in Europa e in gran parte del resto del mondo dalla fine del 2021 non accenna a fermarsi e minaccia di creare nuovi focolai nei prossimi mesi negli allevamenti UE, secondo quanto riferisce il nuovo report congiunto pubblicato ieri dalle agenzie europee per la sicurezza alimentare (Efsa) e per il controllo delle malattie (Ecdc).
“Tra il 3 dicembre 2022 e il 1 marzo 2023 il virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (AH5N1) è stato trovato in Europa sia in volatili allevati (522 focolai) che selvatici (1138) in 24 Paesi diversi”, scrivono le due agenzie, che avvisano che “nei prossimi mesi potrebbe aumentare il rischio di infezione per gli avicoli allevati” a causa della migrazione di alcune specie selvatiche, in particolare i gabbiani, in aree dove si concentra la produzione industriale di polli, galline ovaiole, tacchini, oche e altri anatidi.
Quella in corso “è sicuramente l’epidemia più importante e devastante che abbiamo osservato in Europa, in termini di numero di focolai identificati” (circa 7mila da ottobre 2021 ad oggi), afferma Francesca Baldinelli, responsabile scientifico dell’EFSA. “Anche per la sua estensione geografica, perché casi di influenza aviaria altamente patogena sono stati trovati dall’estremo nord dell’Europa […] all’estremo sud della penisola iberica”.
L’attuale epidemia sta segnando record anche in altre parti del mondo, in particolare nelle Americhe, in Asia, nel Sud Est Asiatico. Secondo EFSA, l’Europa sta affrontando una situazione senza precedenti anche per un’altra ragione: la durata dell’epidemia. “Durante l’estate in genere non ci sono casi di infezione, o ce ne sono pochissimi”, afferma Baldinelli. “Mentre quest’anno per la prima volta abbiamo visto la stagione precedente, 2021-2022, continuare durante l’estate fino all’attuale stagione epidemica”.
Secondo Gert-Jan Oplaat, presidente dell’associazione dei produttori avicoli Europei (Avec), “per la prima volta l’epidemia è quasi endemica, dura tutto l’anno. Normalmente avremmo una stagione che va da novembre a febbraio, poi arriva il sole, la primavera e tutto si ferma. Adesso invece dura tutto l’anno, e siamo molto preoccupati chiaramente, dobbiamo difendere dall’epidemia le nostre attività, ma anche le persone”.
Perché peggiorano le epidemie di aviaria?
L’EFSA monitora strettamente l’influenza aviaria da alcuni anni, pubblicando rapporti trimestrali, a partire dall’epidemia del 2016-2017, all’epoca la più grande mai registrata nell’UE. “Dopo c’è stata un’altra importante epidemia nel 2020-2021, e poi abbiamo l’epidemia del 2021-2022” che continua ancora oggi, afferma Baldinelli. “Perché stiamo assistendo sempre più a epidemie molto importanti di influenza aviaria è una domanda a cui è molto difficile dare una risposta”, commenta l’esperta.
L’Efsa stessa suggerisce in uno dei suoi rapporti un problema ecosistemico che sta contribuendo a rendere le epidemie sempre più frequenti, grandi e durature: l’eccessiva densità degli allevamenti intensivi avicoli. Nel dossier pubblicato a giugno 2022, l’agenzia ha chiesto espressamente di attivare una “strategia di medio termine” per ridurre la densità degli allevamenti nelle zone ad alta produzione, che sono quelle più colpite dall’epidemia ancora in corso. Secondo quel documento, tra marzo e giugno 2022 “l’86% dei focolai negli allevamenti era dovuto a un contagio secondario, ovvero da un allevamento a un altro”.
“Questo è avvenuto soprattutto in alcuni sistemi produttivi e in alcune aree europee”, spiega Baldinelli. “Soprattutto nel sud-est della Francia, nell’industria del foie gras, ma anche nel nord-est dell’Italia, con i tacchini. Un altro Paese molto colpito dalla diffusione secondaria e in generale dai focolai nel pollame è l’Ungheria, dove c’è sia la produzione di anatidi per il foie gras o per la carne, sia l’allevamento di tacchini”.
In Italia la maggior parte dei contagi avvenuti all’interno degli allevamenti lo scorso anno è avvenuto in provincia di Verona, dove c’è un’elevata concentrazione di capannoni di tacchini e polli. Il Veneto produce circa il 44 per cento dei polli da carne e il 25 per cento dei tacchini allevati in Italia. “Probabilmente bisognerà cominciare a ragionare anche su un alleggerimento dei carichi”, afferma Gian Michele Passerini, Presidente della Confederazione italiana agricoltori del Veneto e proprietario di un allevamento di tacchini colpito dall’aviaria a gennaio 2022.
L’industria avicola europea è però riluttante ad adottare strategie per ridurre le densità nelle aree di produzione, per motivi di competitività. “Penso che sia meglio, anche per l’industria, continuare a lavorare sulla vaccinazione”, afferma Gert-Jan Oplaat, presidente di Avec. “Penso che sia la parte più veloce, perché è molto difficile e molto costoso spostare un allevamento per ridurre le densità”. Il problema, continua Oplaat, è che “non appena iniziamo a vaccinare un animale, molti Paesi [extra UE] non accettano più la carne, gli animali o le uova”.
Rischio spillover
Se il numero e la frequenza delle epidemie di aviaria continua ad aumentare, il problema riguarda l’industria avicola ma anche la salute generale. Un articolo pubblicato a gennaio su Nature afferma che “un focolaio di influenza aviaria in un allevamento di visoni in Spagna fornisce finora la prova più evidente che il ceppo influenzale H5N1 può diffondersi da un mammifero infetto a un altro”, sollevando preoccupazione per la potenziale diffusione tra la popolazione umana. Solo una settimana fa nei pressi di Parigi è stata trovata una volpe positiva al virus.
Secondo Efsa, la persistenza del virus durante il periodo estivo è legata anche alle mutazioni del virus, che diventano capaci di colpire specie prima non minacciate, come alcuni uccelli acquatici che nidificano in Europa in estate, o anche diversi mammiferi in Europa, Americhe, Asia. Per quanto riguarda l’essere umano, il report elenca otto casi di contagio conclamati negli ultimi mesi tra Cambogia, Cina, Ecuador e Vietnam. In Europa il documento indica un rischio basso di contagio per la popolazione umana, che sale a “basso a moderato” per chi lavora negli allevamenti.
Secondo Baldinelli “il rischio esiste, da basso a medio, ma con una grande incertezza dovuta la fatto che circolano diversi ceppi virali, e che si tratta di un virus ad RNA, che, come abbiamo imparato tutti dal Coronavirus, quando gira può mutare, quindi muta, e possono emergere delle mutazioni che ne facilitano l’adattamento e la replicazione nell’uomo.”
Un conto salato
Per contenere i focolai, nel primo anno dell’epidemia sono stati abbattuti solo in Europa oltre 52 milioni di avicoli, in particolare anatre, tacchini, polli, la maggior parte in Francia, Italia, Belgio, Ungheria, Germania. Secondo Oplaat, “appena si contagia un allevamento, se l’allevatore si accorge di qualcosa, deve allertare le autorità veterinarie. Se risultano casi positivi al virus, bloccano immediatamente la fattoria e abbattono gli animali. Siamo in questa situazione in cui è molto difficile che le persone e la società accettino ancora a lungo che vengano soppressi così tanti animali, anche se sono sani. Perché si abbattono i capi anche nell’area circostante, per prevenzione.”
Oltre a un tema etico e sociale, l’abbattimento massivo di milioni e milioni di avicoli allevati rappresenta un costo non indifferente anche in termini di risorse pubbliche.
Secondo dati forniti dalla Commissione UE, l’Europa ha stanziato circa 400 milioni di euro per sostenere gli stati membri al contrasto del primo anno di epidemia. Questi fondi sono destinati in particolare al settore avicolo per coprire “i danni indiretti”, ovvero il danno economico delle aziende che hanno dovuto interrompere la produzione.
A questi fondi, vanno aggiunti anche gli indennizzi corrisposti agli allevatori per ogni singolo capo abbattuto. Secondo dati governativi, in Francia dall’inizio dell’epidemia a inizio 2023 sono stati abbattuti 20.6 milioni di capi, e il governo ha stanziato 1,1 miliardi di euro per le aziende del settore, finanziate in larga parte dall’UE. In Italia, dove nel 2022 sono stati abbattuti 15 milioni di capi, secondo esponenti di filiera, gli indennizzi si aggirano intorno a una cifra simile. Secondo Ismea, a gennaio 2022 ogni singolo tacchino abbattuto in Italia era pagato tra i 9 e i 20 euro e un pollo da carne 1,5 euro. Il Ministero della Salute italiano ha però rifiutato di fornire dati sugli indennizzi pagati al settore avicolo per i danni diretti legati all’aviaria.
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