Il legame invisibile tra la deforestazione in Paraguay, Argentina e Bolivia e le esportazioni di pellami in Italia e in Europa. Le aziende italiane: rispettiamo le regole del Paraguay.
La pelle italiana è finita al centro di una diatriba internazionale che ha coinvolto case automobilistiche e il governo paraguaiano, dopo che un dossier di una Ong inglese ha accusato alcune concerie di comprare pelli provenienti da aree deforestate del Gran Chaco in Paraguay. Il dossier che ha innescato la miccia si chiama Grand Theft Chaco ed è stato pubblicato nei giorni scorsi dall’organizzazione non governativa inglese Earthsight. Ma già nelle settimane precedenti alla pubblicazione il documento ha creato reazioni a catena nelle industrie della pelle e dell’automobile, a cui è stato sottoposto per dare possibilità di replica.
“I principali produttori europei di automobili, tra cui Bmw e Jaguar Land Rover, stanno usando della pelle collegata alla distruzione di un’area protetta di foresta sudamericana, abitata da uno degli ultimi popoli indigeni che non hanno contatti con la civiltà”, è l’accusa dell’ong, sostenuta da un rapporto di oltre 40 pagine.
La deforestazione del Chaco
Il Gran Chaco è la seconda foresta del Sud America dopo l’Amazzonia. Si estende per 800 mila km quadrati tra Argentina, Bolivia e Paraguay e ospita migliaia di specie di animali e piante, oltre a una popolazione di 250 mila indigeni. Negli ultimi anni è stato vittima di una delle deforestazioni più rapide della storia: secondo la Nasa tra il 1985 e il 2016 circa un quinto del Gran Chaco è stato convertito in terreni agricoli e pascoli.
In Argentina la foresta ha lasciato spazio soprattutto ai campi di soia mentre in Paraguay le diverse caratteristiche del territorio hanno favorito l’espansione di pascoli di bovini. Secondo Global Forest Watch ancora nel 2019 il Paraguay ha perso 50mila ettari di foresta primaria, in particolare nelle regioni del Chaco.
L’analisi di Earthsight
“Di 255 mila ettari deforestati nel Chaco paraguaiano tra agosto 2017 e agosto 2018, solo 94 mila erano autorizzati”, scrive Earthsight citando un rapporto dell’agenzia governativa per l’ambiente Infona. L’Ong, raccontando una lunga serie di interviste sul campo con funzionari ed ex funzionari governativi, intermediari e «mercanti di terre», denuncia un sistema diffuso di corruzione fin dentro i ministeri, di concessioni a deforestare molto semplici da ottenere, di impunità per le violazioni commesse.
“Almeno il 20 per cento della deforestazione del Chaco in Paraguay è illegale, ma non c’è una sola persona in galera per questo”, afferma l’avvocato argentino Ezequiel Santaganda nel dossier. Earthsight si concentra in particolare in un’area protetta del Gran Chaco (Pncat, in Alto Paraguay) dove vive una delle ultime tribù indigene al mondo che non hanno contatti con il resto della civiltà, i Totobiegosode.
Attraverso immagini satellitari il dossier documenta fino al 2019 la deforestazione in quest’area; poi usando registri e informazioni acquisite sul campo, il documento traccia i capi bovini allevati fino ai principali macelli del Paraguay, FrigoAthena, Frigomerc e Frigorifico Concepcion. Da qui l’Ong continua a seguire il percorso delle pelli verso due concerie paraguaiane, Cencoprod e Lecom, e tira in ballo l’industria della pelle italiana: “Ogni anno il Paraguay esporta oltre un miliardo di dollari di carne e pellame. Mentre la maggior parte della carne è destinata a Cile e Russia, il 60 per cento del pellame raggiunge un unico Paese: l’Italia“, si legge nel rapporto.
“Vendiamo anche in altri Paesi, ma la maggior parte della pelle va in Italia. L’Italia è una specie di porta di accesso per l’Europa”, afferma Ferdinand Kehler, direttore della conceria paraguaiana Cencoprod, in una conversazione registrata che abbiamo visionato integralmente. “Vendiamo in Italia quasi l’80 per cento, ma il dato racchiude anche Germania, Francia e altri. Va in Italia ma poi finisce in altri Paesi”. Secondo i dati Eurostat, nel 2019 l’Europa ha importato 24,2 mila tonnellate di «wet blue», ovvero pelli semilavorate, dalle concerie paraguaiane. Quasi la totalità, 24,1 mila tonnellate (per un valore di 20 milioni di euro), erano destinate all’Italia. Secondo un database commerciale, tra il 2014 e il 2017 il 39 per cento delle pelli esportate dal Paraguay sono state comprate dall’italiana Pasubio, seguita da altre concerie come Gruppo Mastrotto, Nuti Ivo e Rino Mastrotto Group.
L’industria dell’auto
La Pasubio è una delle principali concerie in Italia: 307 milioni di euro di ricavi nel 2019, appartiene a un fondo di Cvc Capital Partners attraverso una società basata in Lussemburgo. Situata nel distretto Veneto di Arzignano, Pasubio è il principale produttore in Europa di pelli per il settore auto, che rappresenta il 90 per cento del suo giro d’affari. Pasubio ha una presenza strutturata in tutto il panorama dei marchi automobilistici, in particolare nella fascia lusso, dove si concentra una maggiore domanda di pelli.
I dati commerciali indicano che la conceria ha comprato pelli semilavorate da tutte le concerie citate nel rapporto Earthsight: ecco perché il dossier, finito sul tavolo di tutti i gruppi automobilistici, ha innescato una serie di reazioni in molte aziende. “Prendiamo molto sul serio le accuse di comportamenti illegali o non etici nella nostra filiera e ci siamo subito attivati per indagare i punti sollevati dal rapporto con i nostri fornitori”, ha detto Steven Slocket, responsabile per la sostenibilità di Jaguar Land Rover in Regno Unito.
Dello stesso tono il gruppo Bmw: “Finora non abbiamo informazioni che la filiera del Gruppo Bmw in Sud America sia legata ai problemi sollevati”, ha detto Kai Zoebelein, responsabile sostenibilità del Gruppo, che però ha annunciato la sospensione provvisoria delle forniture dal Sud America e la messa a punto di un migliore sistema di tracciabilità.
La garanzia del governo
“Il Paraguay rappresenta una fonte marginale sul totale di acquisti di pellame che facciamo”, afferma Luca Pretto, amministratore delegato di Pasubio. “D’altra parte leggere informazioni che non fanno onore al vero ci infastidisce e danneggia per l’insieme di richieste e di rassicurazioni che ci arrivano dai nostri clienti”.
Raggiunta da una serie di richieste di chiarimenti da parte dei propri clienti nel settore auto, l’azienda si è attivata a sua volta verso i fornitori in Paraguay: “Tutti i nostri fornitori ci hanno garantito che operano conformi alla legge paraguaiana”, ha detto Pretto. “Per aver la garanzia che questo corrispondesse al vero, siamo entrati in contatto con il governo paraguaiano”.
Sollecitato dall’azienda, il ministro dell’Industria e del commercio del Paraguay Liz Rossanna Cramer Campos ha scritto una lettera a Pasubio in cui ha assicurato che “il settore produttivo e l’industria nazionale di prodotti e sottoprodotti legati ai pascoli hanno lavorato per decenni a fianco allo Stato nel rispetto delle normative”. Secondo Pretto, la lettera ha dato all’azienda “ampia assicurazione che gli operatori nel mercato che rappresentano parte delle nostre forniture di materia prima stanno operando e hanno operato in perfetta conformità alla legge paraguaiana. Con questo noi ci siamo sentiti tutelati”.
“Non abbiamo né il potere né possiamo avere l’onere di dover mettere in discussione il governo di un Paese che ci garantisce questo”, ha aggiunto Pretto. “Il governo paraguaiano ha confermato che il loro operato è in piena regola rispetto alle leggi paraguaiane: non devono seguire le leggi italiane o tedesche o francesi, sono in Paraguay, seguono le leggi paraguaiane”.
Il nodo della tracciabilità
Proprio il tema dell’onere della tracciabilità per i produttori di pelle è il nodo che contrappone il rapporto di Earthsight con l’atteggiamento dell’industria conciaria. “Ricordiamo che la lavorazione delle pelli è l’utilizzo di uno scarto dell’industria alimentare. Non esistono bovini uccisi per le pelli, esistono bovini uccisi per l’alimentazione”, sostiene Pretto.
Per questo motivo, secondo Maurizia Contu del dipartimento economico dell’Unione nazionale industria conciaria, “esiste una normativa molto stretta per quanto riguarda la tracciabilità, ma solo per la catena alimentare. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda la pelle.”
Anche i principali sistemi di certificazione del settore pelle, Icec e Lwg, oltre ad essere volontari per le aziende, tracciano le materie prime soltanto fino al macello, non verificando quindi se i capi provengono da aree deforestate. Dopo il dibattito su pelle e deforestazione sollevato nel 2017, l’industria conciaria ha avviato in Brasile un programma pilota per provare a tracciare le pelli fino agli allevamenti: “Bisogna iniziare a ragionare sui temi dell’animal welfare o della deforestazione per fare delle integrazioni o delle analisi di rischio su queste tematiche della tracciabilità”, ha detto Sabrina Frontini, direttrice di Icec, in un convegno. Dello stesso avviso il suo omologo Rafael Andreade di Cicb, organismo brasiliano di certificazione della sostenibilità della pelle: “Dobbiamo fare di più, dobbiamo andare oltre il concetto di legalità. Tutte le concerie sono legali, tutte fanno i loro compiti per casa”.