Reportage tra le industrie della farina di pesce in Africa, il componente base dei mangimi per gli allevamenti europei

 

I camion sono allineati sulla spiaggia, uno a fianco all’altro, i portelloni posteriori aperti verso l’oceano. Sulla sabbia ci sono pile di casse vuote, ogni tanto un trasportatore ne prende una e va incontro alle piccole piroghe colorate che a intermittenza raggiungono la spiaggia cariche di pesce. Siamo al molo della pesca di Hann a Dakar, in Senegal. Le piroghe sono imbarcazioni tipiche della pesca artigianale senegalese e stanno rientrando con il pescato quotidiano. Non sono tantissime: quando una raggiunge la spiaggia viene circondata da persone, una catena umana che scarica il pesce e riempie le cassette. Alcune sono destinate al vicino mercato ittico, altre vengono caricate sui camion fermi sulla sabbia, che porteranno il pesce alle industrie di trasformazione. Alcune specie saranno congelate ed esportate. Altre, i piccoli pelagici – sono destinati alle fabbriche che producono farina e olio di pesce, esportati in Asia e Europa come componente dei mangimi per gli allevamenti, in particolare per l’acquacoltura.

«Non lavoriamo solo con una fabbrica, ci sono molti intermediari che vengono qui alla spiaggia ogni sera», racconta Adama Thiem, pescatore del mercato ittico di Soumbedioune, a Dakar. «Ogni intermediario compra del pesce e lo porta nella sua fabbrica».

L’industria della farina di pesce è cresciuta molto in pochi anni in Africa Occidentale, in Marocco, Mauritania, Senegal e Gambia, lungo le rotte migratorie delle sardinelle. Nel 2019 Greenpeace ha censito «50 fabbriche di farina di pesce in Mauritania, Senegal e Gambia».

«Oggi assistiamo a una proliferazione delle industrie di farina di pesce dappertutto in Africa occidentale, e questo crea diversi problemi», racconta Moussa Mbengue, presidente dell’Associazione dell’Africa Occidentale per lo sviluppo della pesca artigianale (Wadaf). «In origine le industrie di farina di pesce avevano la funzione di prendere scarti della pesca e valorizzarli. Oggi non ci sono più scarti da valorizzare, perché la risorsa ittica è scarsa. Di conseguenza le industrie di farina non usano più scarti, ma i piccoli pesci pelagici».

Secondo la Fao i piccoli pelagici hanno un ruolo fondamentale nell’economia e nella sicurezza alimentare delle popolazioni costiere e interne, ma stanno diminuendo per l’eccessiva pesca: «In Paesi come Mauritania, Senegal e Gambia la farina di pesce è prodotta quasi esclusivamente con piccoli pelagici – come le sardinelle e i bonga – che sono considerati la principale fonte di proteine animali per migliaia di persone in questa regione», afferma Djiga Thiao, autore di uno studio della Fao del 2020 su farina di pesce e sicurezza alimentare.

Il villaggio dei pescatori

Kayar è un villaggio di pescatori a 60 km da Dakar. Per raggiungerlo impieghiamo oltre due ore di auto, attraverso una strada dissestata che attraversa villaggi di baracche e piccoli edifici spesso incompleti a nord della capitale.

Nel 2019 la società Spagnola Barna ha costruito nel villaggio una fabbrica di farina di pesce. L’azienda si racconta come «una piccola impresa specializzata nella produzione di farina e olio di pesce da scarti», «impegnata nella sostenibilità», ma la fabbrica di Kayar suggerisce una storia differente.
«Tutti i pescatori vendono il pesce alla fabbrica», afferma Mor Mbengue, pescatore del posto.

«La fabbrica ha intermediari che vengono sulla spiaggia e comprano il pesce». Secondo Mbengue «la fabbrica incentiva la pesca eccessiva perché spinge i pescatori, anche quelli che cercano di seguire le regole, a catturare il novellame (i pesci troppo giovani, ndr) per venderlo alla fabbrica».

Secondo Babacar Mbodji, anche lui pescatore, «non c’è più tanto pesce, la risorsa ittica è diminuita molto negli ultimi anni». «I pescatori prendono pesci di tutti i tipi, anche i più piccoli, non solo i grandi, dato che le fabbriche hanno bisogno di tutti i tipi di pesce per lavorare».

Le donne trasformatrici

Poche centinaia di metri più avanti c’è un piazzale, pieno di banchi di pietra. Su uno o due banchi c’è una pila di pesci piccoli, sardinelle, cosparsi di sale. Tutto il resto del piazzale è vuoto, semi abbandonato. «In questo momento non lavoriamo affatto, non c’è il pesce», afferma Binta Kama, donna trasformatrice dei prodotti ittici di Kayar.

La figura delle «donne trasformatrici» è una figura chiave dell’economia della pesca artigianale in Senegal: migliaia di donne che lavorano il pesce fresco, soprattutto i piccoli pelagici, mettendolo sotto sale per venderlo nelle aree che non hanno accesso al mare.

«Lavoriamo con clienti del Burkina Faso o con i Togolesi», afferma Kama. «Ma dal 2020 e nel 2021 non riusciamo più a produrre niente di niente per colpa della fabbrica di farina di pesce». «Adesso comprano tutto loro», continua la donna, che mostra un portico vuoto alle sue spalle.

«Qui lavoravamo in venti, ma adesso siamo rimaste soltanto in quattro. Le altre hanno abbandonato perché non c’è più lavoro».

Adama Thiem, il pescatore del mercato ittico di Dakar, conferma che «lavorare con le fabbriche è molto meglio che lavorare con le donne che vendono al mercato del pesce. Se lavori con le fabbriche guadagni di più, pagano meglio».

Chili di pesce e biodiversità

Secondo dati Eurostat e Trase, nel 2020 il Senegal ha esportato in Europa 582 tonnellate di farina di pesce (1 milione di euro), in particolare in Danimarca, Italia e Lituania. La Mauritania ha esportato in Europa 8mila tonnellate di farina di pesce (10.3 milioni di dollari). Sia Senegal che Mauritania esportano quantità molto maggiori di farina di pesce verso l’Asia, in particolare verso Cina e Vietnam. Il principale esportatore di farina di pesce verso l’Europa è il Marocco (46,5 milioni di tonnellate nel 2020 per un valore di 52,2 milioni di dollari).

Secondo uno studio dell’Università della Florida sono necessari tra i 4 e i 5 chili di pesce per produrre un chilo di farina di pesce.

Farina e olio di pesce sono un ingrediente dei mangimi usati in diversi tipi di allevamento, in particolare in acquacoltura, in percentuali che variano in base al tipo di pesce allevato. Secondo un’elaborazione di Compassion in World Farming basata su dati del governo Scozzese, sono necessari «54-125 pesci per produrre le farine usate in media per un salmone Atlantico».

Green Deal

Con il Maritime, Fisheries and Aquaculture fund l’Europa ha stanziato per il 2021-2027 un budget di 6.1 miliardi di euro, di cui circa un terzo per lo sviluppo dell’acquacoltura.

«Le emissioni per produrre cibo con l’acquacoltura sono molto minori rispetto ad altre produzioni», afferma Vivian Loonela, portavoce della commissione Ue per il Green Deal e il settore ittico. «Per questo incoraggiamo i Paesi ad essere più intraprendenti verso l’acquacoltura».

Riguardo al pericolo legato ai mangimi di incentivare la pesca eccessiva in Africa, la portavoce risponde che «ci occupiamo molto anche della protezione della biodiversità e degli ecosistemi».

Andrea Doglioli è ricercatore dell’Istituto Mediterraneo di Oceanografia con sede a Marsiglia e in passato ha studiato l’impatto di alcuni allevamenti di orate in Italia. «I miei grossi dubbi riguardano l’acquacoltura tipica Italiana ed Europea, in cui si allevano pesci predatori come il salmone in Nord Europa o nel Mediterraneo il branzino», afferma. Secondo Doglioli «il grosso rischio è mantenere diseguaglianze a livello globale». «Forse bisognerebbe ragionare in termini di Green Deal, di acquacoltura sostenibile, da un punto di vista globale. E quindi l’allevamento di pesci carnivori secondo me è difficilmente qualcosa che potrebbe entrare veramente in un Green Deal».

Realizzato con il supporto del programma Earth Journalism Network di Internews.

 

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