La specie simbolo del mare nostrum a rischio scomparsa per effetto di anni di sovrappesca. Braccio di ferro tra UE, Italia, Francia e Spagna su nuove restrizioni alla pesca.

Il merluzzo (nome improprio con cui in Italia viene chiamato il nasello, Merluccius merluccius) potrebbe sparire nei prossimi anni dal Mediterraneo occiedentale per effetto di decenni di pesca intensiva, insieme ad alcune altre specie che vivono in profondità come il gambero viola o lo scampo, ma l’Europa fatica ad approvare misure efficaci per ridurre le attività di pesca a strascico, in particolare per l’opposizione dei governi di Italia, Francia e Spagna.

Secondo i dati più recenti dello Scientific, Technical and Economic Committee for Fisheries (STECF), organo di ricerca in seno alla Commissione europea, le popolazioni di nasello nel Mediterraneo occidentale sono sotto il 10% dei livelli considerati minimi per la sopravvivenza della specie, e ancora oggi vengono pescate in quantità quasi doppie (1.98) rispetto ai limiti che permetterebbero agli stock di rigenerarsi.

“Il nasello è sempre in una situazione di sovrappesca,” afferma Francesco Colloca, dirigente di ricerca del dipartimento di ecologia marina integrata della Stazione Zoologica Anton Dohrn. Secondo il ricercatore, negli ultimi 10 anni un calo sostanziale delle attività di pesca imposto dall’Europa ha migliorato leggermente la condizione di alcuni stock di merluzzo e di altre specie colpite da sovrappesca nel Mediterraneo occidentale, ma la situazione è ancora critica e altri sforzi sono necessari per salvare la sopravvivenza di questa specie.

“È necessario raggiungere i target della commissione europea del massimo sfruttamento sostenibile, la riduzione dello sforzo di pesca deve essere portata avanti, magari in modo progressivo nell’arco di alcuni anni, ma deve essere portata avanti se vogliamo dare un futuro alla pesca,” ha detto Colloca.

La regolamentazione della pesca a strascico del nasello e delle altre popolazioni a rischio è stata al centro di una riunione incandescente del consiglio Agrifish, l’organo europeo che riunisce i ministri degli Stati Membri con delega ad agricoltura e pesca, che si è riunito il 9 e 10 dicembre a Bruxelles con il compito di definire le quote di pesca per il 2025.

Il consiglio Agrifish è stato il culmine di uno scontro che si protrae da mesi, e vede schierati su fronti opposti la Commissione Europea, che ha chiesto agli stati membri misure urgenti per ridurre la pressione della pesca verso il merluzzo e le altre specie nel Mediterraneo, e i governi di Italia, Francia e Spagna, che al contrario hanno proposto una moratoria di un anno su qualsiasi nuova restrizione.

Gestire la pesca “con una lettura rigida delle indicazioni scientifiche significherebbe andare incontro a misure che non sono accettabili per le nostre economie locali e nazionali,” hanno scritto i tre governi in una dichiarazione congiunta pubblicata a fine novembre.

L’esito finale del consiglio Agrifish è stato un compromesso: sono state adottate nuove restrizioni alla pesca a strascico nel Mediterraneo, ma anche una serie di nuove “misure compensative” che potrebbero consentire alle flotte dell’UE di recuperare nel 2025 quasi lo stesso numero di giorni di pesca del 2024.

La scomparsa del merluzzo

Secondo dati FAO, Italia, Francia e Spagna dispongono nel Mediterraneo di una flotta di oltre 12 mila imbarcazioni, di cui il 14% fanno pesca a strascico. L’Italia con quasi 10mila navi è la terza flotta di tutto il Mediterraneo dopo la Turchia e la Grecia. I tre Paesi UE pescano ogni anno nel Mediterraneo circa 950 mila tonnellate di pesce, di cui 2,3 mila tonnellate di merluzzo nelle aree di pesca al largo di Francia e Spagna (rispetto alle 1,2mila tonnellate considerate sostenibili dallo STECF) e 2mila tonnellate lungo le coste italiane (rispetto alle 1,3mila tonnellate considerate sostenibili).

Per far fronte alla sovrappesca del merluzzo e di altre specie che vivono in prossimità dei fondali, note come “demersali”, nel 2019 l’Unione Europea ha varato un piano pluriennale dedicato al Mediterraneo Occidentale (che include il Tirreno, il mar Ligure, il golfo del Leone, il mar di Sardegna e il mare delle Baleari) chiamato “WestMed MAP”. Il piano si basava su valutazioni scientifiche e obbligava gli stati membri a mettere in atto misure urgenti per ridurre la pressione della pesca sul merluzzo e su altre cinque specie, come il gambero viola o lo scampo, per portare queste popolazioni a un livello di sostenibilità entro e non oltre il 1 gennaio 2025.

In cinque anni il piano ha prodotto un calo del 40% dei giorni di pesca e stimolato altre misure, come la chiusura alla pesca in alcune aree di riproduzione, o l’utilizzo di reti a maglie più larghe, per evitare la cattura di esemplari troppo piccoli. Queste misure hanno generato segnali di recupero di alcuni stock, anche se non sufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Secondo un report pubblicato a maggio dalla Ong Oceana, che aggrega dati dello STECF e della FAO, alla scadenza del 1 gennaio 2025 “tra le popolazioni ittiche analizzate, il 46% sono sovrasfruttate in modo critico, il 39% sovrasfruttate, e solo il 15% hanno un livello di biomassa sostenibile. Questo significa che gli obiettivi del piano sono stati mancati per l’85% delle popolazioni.”

“Manca solo un minuto a mezzanotte,” afferma Giulia Guadagnoli, responsabile per la pesca nel Mediterraneo a Oceana. “Ora è tempo di adottare misure di emergenza per salvare il merluzzo, perché salvare una specie ci aiuterà a salvare l’ecosistema, le comunità locali, il mar Mediterraneo nel suo complesso, e non ultima la nostra identità,” ha detto Guadagnoli.

Lo scontro in Europa

Sulla base di una nuova valutazione prodotta dallo STECF, nei giorni scorsi la commissione europea ha proposto un ulteriore pacchetto di restrizioni alla pesca per il 2025. “Sono necessarie ulteriori riduzioni significative” della pesca a strascico, si legge nel documento. Per il nasello, la commissione ha chiesto una riduzione della pesca del 66% nelle acque francesi e spagnole e del 38% nelle acque italiane. La commissione ha anche chiesto nuove “misure di emergenza,” come l’uso di reti ancora più selettive, o la creazione di aree protette.

La richiesta ha suscitato una dura reazione nel settore. Solo un mese prima, a inizio novembre, Europêche, l’organo di rappresentanza dell’industria della pesca nell’Unione Europea, aveva chiesto una moratoria a qualsiasi ulteriore restrizione della pesca delle specie demersali, come il merluzzo, nel Mediterraneo.

“Abbiamo detto cinque anni fa che sarebbe stato impossibile raggiungere gli obiettivi,” ci dice Javier Garat Pérez, presidente di Europêche. “Perché anche arrestando del tutto le attività di pesca non sarebbe successo. Dobbiamo parlare di sostenibilità ambientale, di biodiversità, ma anche di sostenibilità socio economica.”

Nelle scorse settimane la posizione dell’industria è stata ripresa in toto dai tre governi coinvolti: “Viste le significative conseguenze socioeconomiche delle misure attuate, è necessario riflettere sulla futura attuazione del MAP, in particolare per quanto riguarda la diminuzione dello sforzo di pesca,” hanno scritto in una lettera congiunta. Commentando il documento, il Ministro alle politiche agricole e alla pesca del governo Italiano Francesco Lollobrigida ha detto alla stampa che “la moratoria richiesta per il 2025 permetterà al settore di trovare un equilibrio tra sostenibilità ambientale e sviluppo economico.”

Pertanto le richieste ambiziose espresse dalla Commissione europea sono state recepite dall’industria come un atto di aperta ostilità: “Il settore italiano ha reagito come se si trattasse di una dichiarazione di guerra,” ha detto Garat Pérez, aggiungendo che “l’industria della pesca è pronta a scendere in piazza. Loro vivono nei palazzi di Bruxelles, ma non capiscono cosa succede nei porti, questo è molto grave.”

Alla riunione di Agrifish questo scontro ha portato a un compromesso: la riduzione dei giorni di pesca proposta dalla Commissione è stata approvata, ma è stata anche introdotta una serie di nuove “misure compensative,” come l’utilizzo di reti a maglie più larghe o l’istituzione di nuove aree precluse ai pescherecci, che potrebbero permettere alle flotte di recuperare tutti i giorni di pesca.

“Per mantenere il numero di giorni di pesca, sarà necessario uno sforzo aggiuntivo, che non tutti saranno in grado di soddisfare,” ha commentato Garat Pérez. “In particolare, la necessità di cambiare di nuovo le reti da pesca,” ha detto il presidente di Europêche, che ha auspicato nuovi sussidi per sostenere le flotte.

Sul fronte opposto, secondo Guadagnoli, “le incertezze che circondano il nuovo meccanismo di compensazione che concede giorni di pesca extra ai pescherecci a strascico sollevano dubbi sulla sua capacità di garantire lo sfruttamento sostenibile di tutte le popolazioni ittiche.”

La situazione nei porti

Il clima di tensione intorno alle normative UE si respira chiaramente anche in alcuni porti che abbiamo visitato, sia in Italia che in Spagna. “Per via dell’Europa, noi lavoriamo tra i 140 e i 150 giorni l’anno,” ha detto Paco Català, presidente della Cooperativa dei pescatori di Calpe, un porto a 120 km a sud di Valencia, in Spagna. Secondo Català, non si possono imputare ai pescatori le responsabilità per lo stato degli stock ittici nel Mediterraneo, in quanto la flotta nella sola Calpe negli ultimi 10 anni è passata da quasi 40 imbarcazioni a 13, che lavorano tra i 140 e i 150 giorni l’anno. “Perché non vogliono che lavoriamo? Ci chiedono di non sfruttare il mare, ma non siamo noi il problema. Perché lo fanno? Non lo so.”

Di diverso avviso Massimo Siccardi, che lavora all’ingrosso nel mercato del pesce di Anzio, a 30 km a Sud di Roma, e che negli ultimi decenni è stato testimone di un impoverimento drastico delle risorse ittiche nel mare del centro Italia. “Da noi è sparito tutto, non c’è più niente, alcuni pesci non ci stanno più,” ci racconta Siccardi, che imputa la responsabilità a decenni di pratiche di pesca sregolate. “Negli anni ‘80 qui ad Anzio venivano le flotte da Civitavecchia, Piombino, anche dalla Sicilia, perché c’era tantissimo pesce. Restavano per la stagione, da marzo a settembre, e poi andavano via.”

Secondo Siccardi, oggi “il pescato si è ridotto del 70 per cento,” e alcune specie sono scomparse del tutto o quasi, come il merluzzo. Il risultato è che i pescatori sono di fronte a uno scenario molto più complesso, “sono costretti ad andare più a largo possibile. Ogni volta che escono consumano dalle 600 alle 700 euro di gasolio, quindi se non pescano almeno 3-4 mila euro di pesce non hanno fatto la giornata.”

Colloca afferma che le politiche di riduzione della pesca sono necessarie per salvaguardare il comparto: “La riduzione dello sforzo di pesca va a colpire le flotte nel breve periodo, ma nel lungo periodo ne garantisce la sopravvivenza,” ha detto il ricercatore. “Purtroppo la politica ragiona in tempi brevi.”

Il nodo del consumo

Analizzando i dati di consumo e produzione del pesce, emerge che lo sfruttamento eccessivo degli stock è legato anche a un problema di iperconsumo, tanto che i Paesi UE del Mediterraneo, Italia compresa, nonostante lo sfruttamento eccessivo della maggior parte delle proprie risorse ittiche, sono estremamente dipendenti dall’importazione di pesce.

Secono i dati FAO a livello globale il consumo annuale pro capite di pesce è passato dai 9.1kg del 1961 ai 20.7 kg nel 2022. Secondo i più recenti dati di produzione e consumo in Europa, l’Italia nel 2021, a fronte di 149 mila tonnellate di prodotti provenienti dalla pesca e 146 mila tonnellate dall’acquacoltura, ha importato 1,2 milioni di tonnellate di prodotti ittici, per rispondere a un consumo pro capite di 30,15kg. La Francia a fronte di 484 mila tonnellate sbarcate e 193 mila tonnellate da acquacoltura ha importato 1,4 milioni di tonnellate per un consumo pro capite di 32,18 kg. La Spagna ha sbarcato 758 mila tonnellate, prodotto in acquacoltura 276 mila tonnellate e importato 1,8 milioni di tonnellate di prodotti ittici, per un consumo pro capite di 42,98 kg l’anno.

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