La lettera firmata da 160 gruppi chiede alla FAO di smettere di etichettare come “sostenibili” sistemi di allevamento considerati distruttivi.
In occasione della giornata mondiale degli oceani, un gruppo di oltre 160 organizzazioni non governative, comunità e singoli ricercatori hanno inviato una lettera aperta ai vertici della Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), per chiedere che gli allevamenti di pesci carnivori come salmoni, spigole, orate, trote, gamberi, tonni, non siano più indicati come un modello sostenibile, su cui investire fondi pubblici.
“L’acquacoltura è sempre raccontata come una soluzione per i problemi che abbiamo con i nostri Oceani, come il collasso delle specie marine, la pesca eccessiva, l’inquinamento”, ha detto al Corriere Nusa Urbancic, direttrice di Changing Market Foundation, tra le Ong che hanno firmato la lettera. “Ma quando abbiamo iniziato a studiare l’acquacoltura, abbiamo capito che spesso è anche una delle cause di questi problemi.”
La lettera è stata firmata da 160 gruppi, tra cui la rete Global Salmon Farming Resistance, Slow Food, Eurogroup for Animals e Mission Blue, l’Ong fondata dalla celebre biologa marina Sylvia Earle. Il documento è indirizzato a Manuel Barange, direttore della divisione Pesca e acquacoltura della FAO, e ad altri esponenti di spicco delle Nazioni Unite, oltre al commissario UE per l’ambiente, la pesca e gli oceani Virginijus Sinkevičius, e Janet Coit, dell’agenzia statunitense per la risorse marine NOAA Fisheries.
La richiesta di escludere gli allevamenti di specie carnivore tra i sistemi di produzione sostenibili è legata a una serie di inchieste che negli ultimi anni hanno denunciato inquinamento e violazioni del benessere animale e di diritti umani legati ad allevamenti di salmone, spigole, orate e altre specie ittiche, in Paesi come Norvegia, Cile, Australia, Canada, Grecia, Turchia.
“Gli allevamenti industriali di pesce sono altamente inquinanti a causa delle grandi quantità di feci e rifiuti generati, che creano zone morte attorno alle gabbie in mare,” afferma Catalina Cendoya, direttrice del Global Salmon Farming Resistance, un network che raccoglie centinaia di comunità che si oppongono in varie parti del mondo al proliferare degli allevamenti di salmone e di altre specie. “La FAO deve smettere di etichettare questa attività distruttiva come ‘sostenibile’,” ha detto Cendoya.
Negli stessi anni ripetuti report hanno dimostrato come, nella produzione di specie carnivore, il pesce selvatico utilizzato per la produzione di mangimi è maggiore di quello prodotto negli allevamenti. Lo studio più recente, pubblicato nel 2024 dall’Ong inglese Feedback, ha rivelato che nel 2020 gli allevamenti norvegesi di salmone “hanno utilizzato quasi 2 milioni di tonnellate di pesce selvatico commestibile per produrre olio di pesce destinato ai mangimi che hanno prodotto quasi 1,5 milioni di tonnellate di salmone allevato.”
Secondo il report, fino al 7% di questi pesci selvatici (123.000-144.000 tonnellate) erano piccoli pelagici catturati lungo le coste dell’Africa occidentale, dove avrebbero potuto sfamare tra i 2,5 e i 4 milioni di persone.
Alla fine del 2023, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima (COP) di Dubai, la FAO ha pubblicato una roadmap per trasformare il sistema alimentare, responsabile di almeno un terzo delle emissioni di gas serra sul pianeta e incapace di sfamare parte della popolazione mondiale, con 735 milioni di persone malnutrite. La strategia della FAO, tra le varie soluzioni, propone un’ulteriore impennata della produzione dell’acquacoltura entro il 2040 (+75% rispetto al 2020).
“L’acquacoltura ha superato la pesca come principale produttore di alimenti e prodotti acquatici,” ha detto Barange, l’intestatario della lettera, in un comunicato stampa. “Questo è un grande risultato perché significa che possiamo continuare ad aumentare la produzione di alimenti acquatici senza aumentare l’impatto sull’ambiente marino, poiché meno del 40% dell’acquacoltura viene prodotto in acque marine.”
Il termine acquacoltura include diverse produzioni ittiche: dalle alghe, alla mitilicoltura, dall’allevamento di carpe in acqua dolce, fino all’allevamento intensivo dei salmoni o all’ingrasso dei tonni. Ognuna di queste produzioni ha un impatto sociale e ambientale diverso, legato al sistema di produzione o all’approvvigionamento dei mangimi.
“C’è un disperato bisogno di differenziare ciò che è acquacoltura sostenibile, come l’allevamento di alghe o bivalvi su piccola scala, da ciò che è distruttivo”, afferma Eva Douzinas, presidente della Fondazione Rauch, con sede negli Stati Uniti, che ad aprile ha co-organizzato un convegno in Grecia da cui è nata l’idea della lettera. “È dimostrato che l’allevamento ittico di specie carnivore come il salmone, l’orata e il branzino è del tutto insostenibile. È un’industria che esaurisce gli stock ittici selvatici del mondo e distrugge gli ecosistemi marini invece di sostenerli,” ha detto.
Secondo Carlos Fuentevilla, della divisione Pesca e acquacoltura della FAO, “la domanda non è necessariamente se l’acquacoltura è sostenibile, oppure qual è l’impatto dell’acquacoltura, ma qual è l’impatto in confronto a cosa.” Secondo Fuentevilla, che abbiamo intervistato a margine di un convegno a Malta alla fine del 2023, “certamente l’impatto di una dieta vegana, ad esempio, è minore, per la maggior parte, di qualsiasi proteina animale. Ma se dobbiamo mangiare proteine animali, e le persone le mangeranno, e ne hanno bisogno per nutrirsi, allora in confronto preferirai prodotti che vengono dell’acquacoltura, non importa se da pesci carnivori.”
Negli ultimi anni l’industria degli allevamenti ittici è cresciuta esponenzialmente anche grazie al dispiego di ingenti fondi pubblici, legati alla presunta sostenibilità di questa produzione. Dal 2014 al 2018 l’Unione Europea ha finanziato con almeno 1,72 miliardi di euro programmi di sviluppo degli allevamenti, come il Po Feamp in Italia, largamente utilizzati per creare nuovi allevamenti di spigole, orate o trote.
Il nodo del consumo
Un nodo su cui divergono diametralmente la posizione della FAO e quella delle Ong riguarda il consumo di pesce, che è esploso negli ultimi decenni.
“Negli anni ’60 ciascuno di noi consumava in media circa nove chilogrammi di alimenti acquatici l’anno,” ha detto Barange. “Nel 2022 questa cifra è di 20,7 kg. Quindi è più che raddoppiato in questi pochi decenni, anche se contemporaneamente la popolazione mondiale è cresciuta da 3 a quasi 8 miliardi di persone.”
Secondo Barange, l’acquacoltura offre una risposta perfetta a questo aumento di consumo, senza pesare ulteriormente sulla pesca – dove già oggi il 90 per cento delle specie ittiche è sfruttato ai limiti massimi (circa il 50%) o è sovrasfruttato (37,7%).
La FAO pertanto incoraggia l’aumento di consumo di pesce: “Dobbiamo fare in modo che, trasformando in modo efficace [il sistema alimentare], possiamo aumentare il consumo pro capite a 25,5 kg l’anno entro il 2050,” ha detto Fuentevilla durante il convegno a Malta.
Le Ong firmatarie della lettera, di contro, sostengono che questo sostegno incondizionato all’industria stia generando un boom di allevamenti di specie carnivore, che sono quelle con maggiore valore di mercato ma anche con maggiore impatto, e che questo corto circuito finisca per sottrarre pesce selvatico dove ce n’è più bisogno.
“In pratica stiamo prendendo il pesce dalle persone più vulnerabili e dagli ecosistemi più fragili,” ha detto Urbancic, “e li stiamo dando a pesci più preziosi, allevati intensivamente nel Nord del mondo.”
Lo stesso Fuentevilla ha detto che gli attuali trend mostrano che “aumenterà il consumo pro capite entro il 2030, ma non nelle zone dove sarebbe necessario. In realtà crediamo che ci sarà una riduzione del consumo di pesce in Africa, e una riduzione ancora maggiore nell’Africa Subsahariana,” ha detto nel suo intervento.
La roadmap per i sistemi alimentari della FAO già nei mesi scorsi è stata criticata, in particolare perché omette ogni riferimento alla necessità di ridurre il consumo e la produzione di alimenti di origine animale, come invece raccomandato da altre istituzioni scientifiche come il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite. La roadmap della FAO, al contrario, non accenna a una riduzione delle diete e, oltre all’impennata dell’acquacoltura, promuove un aumento costante della produzione zootecnica (+1,7% l’anno al 2040).
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