Ingenti fondi pubblici europei sono stati erogati negli ultimi due decenni agli allevamenti di salmone in Scozia, nonostante questa industria sia da anni nell’occhio del ciclone per l’elevato impatto ambientale sui delicati ecosistemi dei “loch” scozzesi.

Solo dal 2014 al 2020, nell’ultimo programma dei fondi europei per la pesca e l’acquacoltura (Feamp), gli allevatori di salmone scozzesi hanno ricevuto 23 milioni di euro di fondi pubblici (europei e nazionali) destinati a 104 progetti, secondo quanto abbiamo ricostruito attraverso una serie di richieste di accesso agli atti in Scozia, effettuate in collaborazione con l’organo di giornalismo investigativo scozzese The Ferret.

Di questi l’Europa ha stanziato oltre 9 milioni di euro, tra il 2014 e il 2019, per “lo sviluppo di investimenti produttivi” per gli allevamenti ittici scozzesi, che hanno potuto contare anche su parte di altri 17,8 milioni destinati allo sviluppo di “infrastrutture per pesca e acquacoltura”, secondo quanto riportato dall’ultimo report di rendicontazione del Feamp.

Il sostegno europeo ha permesso una forte crescita degli allevamenti di salmone in Scozia, aumentati nel solo 2019 del 20 per cento rispetto all’anno precedente. Nel 2019 in Scozia operavano oltre 200 allevamenti di salmone in gabbia, con una produzione di circa 190mila tonnellate, esportate in 54 Paesi nel mondo.

Ma negli ultimi anni gli stessi allevamenti sono finiti spesso al centro delle cronache a causa delle tensioni con diverse comunità locali, per via dell’impatto sull’ambiente.

“Il Salmone è una specie di cui si è parlato tanto”, ricostruisce Federica Di Leonardo, portavoce di Compassion in World Farming Italia. “Se ne è parlato come di un alimento salubre, che faceva bene alla salute. Poi invece sono usciti tanti reportage in cui si vede effettivamente come vengono allevati i salmoni, in che tipo di acqua, con quale uso di farmaci. E questo ha avuto un impatto sulla percezione degli allevamenti da parte delle persone”.

L’impatto del salmone scozzese

Il salmone è di gran lunga la specie ittica di allevamento più consumata in Europa. La Scozia nel 2019, prima della Brexit, rappresentava il 90 per cento della produzione europea. Il Paese è tra i primi quattro produttori al mondo insieme a Norvegia, Canada e Cile (insieme rappresentano il 96 per cento della produzione mondiale di salmone allevato e il 50 per cento di tutto il salmone prodotto).

È proprio la dimensione di questa industria in Scozia, insieme al sistema intensivo di allevamento, la ragione dell’impatto ambientale. Secondo una stima dell’organizzazione indipendente Inside Scottish Salmon Feedlots, basata su dati ufficiali del governo scozzese, negli ultimi dieci anni gli allevamenti in Scozia avrebbero scaricato nelle acque a basso ricircolo idrico dei “loch” circa 300 mila tonnellate di rifiuti organici.

Un’indagine presso l’Agenzia scozzese per la tutela ambientale (Sepa) ha rivelato che negli allevamenti di salmone in Scozia è autorizzato l’utilizzo di 16 principi attivi per la gestione delle patologie, tra cui sei antibiotici, cinque ectoparassiticidi, due antifungini e tre anestetici. Per fare un paragone, negli allevamenti ittici in Italia è consentito l’uso soltanto di sette principi attivi, di cui cinque antibiotici.

“Il numero dei farmaci che gli allevatori possono usare in Scozia è in linea con quello di altri Paesi produttori europei di salmone”, ha replicato la Sepa, precisando che richiede a tutte le aziende “che questi farmaci sparsi in quantità rispettino gli standard ambientali”.

Nel 2020 un’inchiesta della stessa Sepa ha denunciato un utilizzo diffuso di formaldeide nelle gabbie di salmoni. Si tratta di una sostanza cancerogena utilizzata in acquacoltura per combattere i parassiti, che proliferano grazie all’elevata densità in cui vivono pesci. Solo un anno prima, nel 2019, la Sepa aveva denunciato l’aumento del 72 per cento dell’utilizzo di un altro pesticida tossico (l’aemethipos) negli allevamenti di salmone (286 kg sparsi in 76 gabbie).

Di fronte alle accuse di avvelenare i loch scozzesi con l’utilizzo costante di queste sostanze, i produttori di salmone hanno replicato che “i pesticidi devono essere sempre a disposizione” per proteggere il benessere degli animali.

Un’industria insostenibile

Le polemiche sull’impatto ambientale e l’uso sistematico di farmaci e pesticidi non sono l’unico motivo di scontro intorno agli allevamenti di salmone in Scozia. Nel 2020 l’organizzazione no profit Scottish Salmon Watch ha denunciato un impianto nell’area di Argyll per violazioni al benessere animale, mostrando immagini di un gran numero di esemplari morti o in fin di vita all’interno delle gabbie.

Un report pubblicato a febbraio dall’organizzazione britannica Just Economics ha denunciato che “in Scozia i decessi sono raddoppiati, dalle 10,329 tonnellate del 2013 alle 25,772 tonnellate del 2019”. Secondo il dossier il 13 per cento della produzione di salmone scozzese diventa scarto: “Sistemi inadeguati di allevamento, parassiti e inquinamento stanno causando centinaia di milioni di morti tra i pesci prima che siano pronti per la macellazione”.

Lo stesso report di Just Economics calcola che, nei principali quattro Paesi produttori (Norvegia, Scozia, Cile, Canada) dal 2013 ad oggi l’allevamento di salmone ha causato “danni all’economia, alla società e all’ambiente per un valore di 50 miliardi di dollari”.

“Le nostre analisi mostrano che l’allevamento di salmone comporta rilevanti costi economici, sociali e ambientali che ad oggi non vengono tenuti in considerazione nei bilanci delle aziende”, commenta Eilís Lawlor, direttrice di Just Economics.

Quale sostenibilità?

Negli ultimi anni, a fronte degli ingenti finanziamenti, l’Unione Europea non è riuscita a imporre stringenti normative ambientali per le produzioni di acquacoltura dei Paesi membri, tra cui il salmone scozzese, ma anche spigole, orate, trote, e altre specie allevate.

Da giugno 2014 un comitato tecnico, cui siedono aziende e produttori, sta lavorando alla stesura di indicatori per misurare l’effettiva impronta ambientale dei prodotti (Pef) della pesca e dell’acquacoltura, ma -secondo quanto ci ha riferito la divisione pesca della Commissione UE- gli indicatori non saranno pronti prima del 2022.

“Credo in un futuro luminoso per l’acquacoltura europea, che già oggi è una parte essenziale della blue economy europea e del nostro sistema alimentare”, ha detto  il commissario UE per l’ambiente Virginijus Sinkevičius, che è anche commissario per la pesca e l’acquacoltura, in un recente incontro con i rappresentanti dell’industria ittica europea. “Essendo una fonte proteica e nutriente che produce poche emissioni, l’acquacoltura ci aiuterà a centrare gli obiettivi del Green New Deal e della strategia Farm to Fork”, ha detto il commissario.

Nel frattempo, dopo la Brexit, la politica sugli allevamenti scozzesi di salmone è passata nelle mani del Regno Unito. L’industria scozzese pianifica di raddoppiare la produzione dai 2 miliardi di euro del 2016 a 4 miliardi di euro nel 2030.

Nel Paese è vivo il dibattito per rinnovare i fondi agli allevamenti: il governo scozzese ha chiesto alle istituzioni del Regno Unito 62 milioni di sterline l’anno per rimpiazzare i fondi europei a sostegno dell’acquacoltura. Secondo fonti governative, nel primo anno il governo inglese ha allocato 14 milioni di sterline.

Considerando l’impatto della Brexit sull’industria del salmone scozzese è improbabile che qualsiasi finanziamento pubblico venga accompagnato da più stringenti normative ambientali. Al contrario, nel mese di gennaio l’agenzia ambientale scozzese ha allentato le normative sull’allevamento del salmone, per aiutare il settore a far fronte alle perdite legate alla Brexit.

“Il danno che la Brexit produrrà sugli abitanti e l’economia scozzesi deve essere ridotto al minimo, per quanto possibile”, ha detto il segretario scozzese alla pesca Fergus Ewing.

 

Servizio realizzato in collaborazione con la cooperativa di giornalismo investigativo scozzese The Ferret e con il supporto del programma journalismfund.eu

Foto di copertina di Isaac Wedin

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