Il vertice di Kingston si è concluso con un aumento dei Paesi contrari. L’Italia tra i pochi Paesi europei che non hanno aderito alla richiesta di moratoria

 

Un numero crescente di Paesi si è schierato per fermare il “Deep Sea Mining”, la controversa pratica per l’estrazione di minerali dal fondo dell’oceano, nel corso di un atteso meeting globale a Kingston, in Giamaica. Anche se alla fine una moratoria non è stata approvata, gli osservatori ritengono che già il dibattito molto polarizzato sia stato un chiaro segnale di stop a questa pratica estrattiva che potrebbe avere effetti già nei prossimi mesi, quando potrebbero essere richieste le prime licenze. L’Italia è tra i pochi Paesi europei che non ha aderito alla richiesta di moratoria.

I riflettori dei media internazionali si sono accesi nelle ultime settimane sul Deep Sea Mining in occasione dell’assemblea annuale dell’International Seabed Authority (ISA), l’autorità che ha il mandato delle Nazioni Unite di gestire le profondità oceaniche, che si è riunita a Kingston dal 15 luglio al 2 agosto.

“La crescente opposizione al Deep Sea Mining da diverse parti della società dimostra chiaramente che questa industria non ha un mandato ad operare,” afferma Sofia Tsenikli, direttrice della Campagna per una moratoria al Deep Sea Mining, che coinvolge 115 organizzazioni non governative, gruppi, istituti di ricerca e reti di piccoli pescatori che si oppongono a questa pratica, che ha partecipato come osservatrice al meeting in Giamaica. “Le profondità oceaniche sono alla base di processi cruciali che rendono il pianeta abitabile, dalla regolazione delle correnti e del meteo allo stoccaggio dell’anidride carbonica,” ha detto Tsenikli, “gli Stati devono proteggere gli oceani adesso e non permettere altri danni.”

Dal meeting di Kingston era attesa una decisione sul Deep Sea Mining, dopo che alcuni Paesi e alcune aziende hanno minacciato il possibile avvio delle operazioni già per la fine del 2024. Di fronte a questa prospettiva, i 168 Stati (più l’Unione Europea) che siedono all’Assemblea generale dell’ISA erano chiamati a prendere una decisione: o istituire una moratoria e bloccare le operazioni di estrazione, oppure approvare il “Mining Code”, un controverso regolamento che permetterà proprio all’ISA di concedere le prime licenze a Paesi e aziende minerarie. L’esito dell’assemblea è stato a tinte chiaroscure: la proposta per una moratoria non è stata votata, ma è aumentato a 32 il blocco di Paesi tra Pacifico, Europa, Caraibi e America Latina che si oppongono a questa pratica, dopo anni di sostegno incondizionato.

Scavare il fondo dell’oceano

Il Deep Sea Mining consiste nell’estrarre dal fondo dell’Oceano metalli e minerali, attraverso l’uso di veicoli che arano i fondali, pompando verso delle navi in superficie tutti i “noduli polimetallici” che incontrano. Nel processo, messo a punto finora solo in via sperimentale, le navi isolano i metalli, riversando in mare tutto il sedimento di scarto. 

Il motivo per cui questa tecnologia sta riscuotendo crescente attenzione internazionale è la richiesta sempre in aumento di minerali critici, come il nichel, il cobalto, il rame, la grafite, il litio, le terre rare, la cui domanda si è impennata anche in doppia cifra negli ultimi anni, in particolare per la richiesta legata alla transizione energetica e digitale – dalle batterie ai pannelli fotovoltaici, passando per i semiconduttori. Sebbene le informazioni al momento disponibili facciano pensare che molti di questi minerali non siano presenti nelle profondità oceaniche, il potenziale interesse commerciale sta comunque spingendo un numero consistente di aziende a scommettere su questa nuova corsa all’oro in fondo all’oceano. 

“Usare i minerali delle profondità oceaniche per combattere la crisi climatica è un po’ come fumare per combattere lo stress,” commenta Diva Amon, biologa e esperta di fondali oceanici del Benioff Ocean Science Laboratory. Secondo Amon, il principale problema con la gestione di qualsiasi attività nelle profondità oceaniche riguarda il fatto che non abbiamo reali conoscenze scientifiche di questi ecosistemi. “Quello che sappiamo è che c’è un’enorme biodiversità nelle profondità oceaniche,” ha detto Amon, “stimiamo che ci siano centinaia di migliaia di specie, molte delle quali non sono mai state scoperte, e tanto meno nominate, e tanto meno studiate.”

Secondo Amon, l’attività estrattiva andrebbe a disturbare circa 15 centimetri di sedimenti, “per cui in pratica la maggior parte dei fondali andrebbe distrutta”. In uno studio pubblicato nel 2022, la ricercatrice ha stimato che le attuali proiezioni delle aziende interessano una superficie complessiva di 500mila km2, che potrebbe impattare 1,5 milioni di km2 e una colonna d’acqua di 6,4 milioni di km2: “Questa potenzialmente sarà la più grande attività mineraria mai esistita sul pianeta Terra,” ha detto. 

Amon sottolinea anche un aspetto che riguarda la lentezza che avrebbero questi ecosistemi, dove il tempo scorre in modo molto diverso, a rigenerarsi: “Sono molto lenti,” afferma la ricercatrice, citando le peculiarità di alcune specie che abitano a queste profondità, come i polpi, che possono covare le proprie uova sui fondali per quattro anni, o come gli squali della Groenlandia, che vivono in media 400 anni e raggiungono la maturità a 150 anni, o come i coralli, che in questi habitat vivono anche 4 mila anni. 

Negli ultimi giorni il dibattito sul Deep Sea Mining è stato agitato anche dalla pubblicazione di uno studio su Nature, che ha provato l’azione dei noduli polimetallici, al centro delle attività di estrazione, nel produrre ossigeno nelle profondità marine tramite una reazione chimica, pur in assenza di luce solare. 

Due blocchi di Paesi

Questi argomenti sono finiti quest’anno per la prima volta al centro del dibattito dell’assemblea dell’ISA, che negli ultimi anni aveva spinto l’avvio di questa estrazione mineraria. “L’ISA è davvero un posto diverso oggi rispetto a quando ho iniziato a lavorare su questo argomento tre anni fa,” racconta Emma Watson, funzionario della Coalizione per la conservazione del Deep Sea, che ha seguito i lavori dell’autorità a Kingston. “Prima nei meeting nessuno parlava dei problemi ambientali, mentre oggi molti Stati hanno fatto dichiarazioni per esprimere la propria preoccupazione,” ha detto. 

Negli ultimi anni l’attività dell’ISA è stata criticata per ragioni di trasparenza. L’ultimo segretario generale Michael Lodge è finito nei giorni scorsi al centro di inchieste internazionali pubblicate su giornali come il New York Times o il Guardian, che ne hanno messo in dubbio l’indipendenza rispetto all’industria mineraria – tanto che alla fine l’assemblea di Kingston ha eletto un nuovo segretario generale, l’oceanografia brasiliana Leticia Carvalho. Nel frattempo l’attenzione sul Deep Sea Mining è cresciuta anche in virtù della presa di posizione di star come Leonardo Di Caprio, la celebre oceanografa Sylvia Earle, sir David Attenborough, e di diversi nomi di spicco delle Nazioni Unite, tra cui il segretario generale António Guterres.

Secondo Wilson, l’attenzione mediatica ha cambiato le carte in tavola, creando un nutrito blocco di Paesi che si oppongono. “Palau è il Paese che guida il gruppo, dopo aver chiesto la moratoria la prima volta due anni fa a una conferenza Onu sugli oceani,” racconta Wilson. Secondo l’esperta, altri Paesi particolarmente attivi sono il Costa Rica, la Germania, la Francia, il Cile, il Brasile, l’Irlanda, il Portogallo, il Belgio, mentre nell’ultima settimana si sono aggiunti Malta, Tuvalu, Guatemala, Honduras e Austria.

Sul fronte opposto, Nauru, un piccolo stato dell’Oceania, vuole avviare le attività quest’anno, in partnership con l’azienda Nauru Ocean Resources Inc (NORI), controllata dalla canadese The Metals Company (TMC). A suo sostegno si sono mossi in particolare Paesi come il Giappone, la Cina e la Norvegia – quest’ultima addirittura pronta ad avviare un’attività di estrazione nelle profondità dell’Artico.

Altri Paesi, come l’India, il Ghana o la Giamaica, hanno chiesto maggiore ricerca, mostrando però una certa apertura: “L’India è pronta a continuare a facilitare l’accesso alle operazioni di ricerca dei minerali nei fondali,” ha detto Mayank Joshi, rappresentante indiano all’ISA. “Porre maggiore attenzione sullo sviluppo e il trasferimento di tecnologie marine permette di porre le basi per una partecipazione equa di tutti gli Stati, e contribuire significativamente verso il raggiungimento di importanti Obiettivi di sviluppo sostenibile,” ha detto Joshi.

Alla fine il blocco dei Paesi interessati all’estrazione mineraria è riuscito a fermare l’approvazione di una moratoria, ma gli osservatori concordano che in questo nuovo scenario difficilmente le prime licenze saranno rilasciate quest’anno, aprendo la strada per un nuovo round alla prossima riunione nel luglio 2025.  

L’Italia da che parte sta?

“L’Italia è davvero isolata in Europa,” afferma Wilson. “Altri Paesi europei si sono espressi a favore di una moratoria o di un approccio precauzionale, ma l’Italia è l’unica che non ha adottato questo passo,” ha detto. 

La posizione incerta dell’Italia può avere dei legami con degli interessi economici: sebbene al momento nessuna azienda italiana possieda licenze di esplorazione, molti gruppi hanno un potenziale interesse allo sviluppo di questa attività. “Le modalità con cui è prevedibile che le imprese italiane possano inserirsi in questo ambito riguardano lo sviluppo di tecnologie e strumenti da affiancare ad altre società minerarie estere,” afferma Greenpeace Italia, in un documento inviato nei giorni scorsi alla stampa. 

L’associazione ha realizzato una mappatura di tredici aziende potenzialmente interessate alle attività di estrazione e ai minerali estratti, negli ambiti di difesa, elettronica, automotive, industria navale, accumuli, batterie, fino alle aziende specializzate nei servizi e nelle tecnologie subacquee. Nessuna di queste aziende ha finora espresso posizioni contrarie al Deep Sea Mining, al contrario di una lunga lista di attori internazionali, tra cui società del calibro di Google, Bmw, Volvo, Renault, che invece hanno dichiarato pubblicamente il loro sostegno per una moratoria.

 

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