Il solo comparto zootecnico rappresenta il 14,5% di tutte le emissioni che alterano il clima.
Le emissioni di gas serra che provengono direttamente dalla produzione globale di carne e derivati animali stanno aumentando negli ultimi anni, anziché diminuire, nonostante le richieste degli scienziati che vedono proprio nel settore zootecnico uno dei principali responsabili della crisi climatica e ambientale che sta investendo il Pianeta.
A rivelarlo sono i risultati di uno studio condotto dalla FAIRR Initiative, una rete di investitori che rappresentano insieme capitali per 70mila miliardi di dollari, e che si occupa di fornire informazioni ai membri sull’impatto ambientale e sociale degli allevamenti intensivi che producono carne, derivati animali e pesci.
“Analizzando i 20 principali produttori al mondo, i dati mostrano che il settore zootecnico non è sulla strada giusta per centrare l’obiettivo di 1,5 gradi,” ha detto a Huffington Post Thalia Vounaki, capo del gruppo di ricerca che ogni anno produce il rapporto. Il riferimento è all’obiettivo siglato con l’accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1.5 gradi rispetto all’epoca preindustriale.
Secondo gli autori dello studio, le emissioni dei 20 principali gruppi zootecnici al mondo tra il 2022 e il 2023 sono aumentate del 3,28%. Questi gruppi includono colossi come JBS, multinazionale con sede in Brasile, Hormel Foods, basata negli Stati Uniti, New Hope Liuhe, in Cina o MHP in Ucraina.
“Il fallimento delle principali aziende di carne e derivati nel ridurre le emissioni indica chiaramente l’urgenza di nuove politiche per il settore alimentare e agricolo,” ha commentato Jeremy Collier, presidente e fondatore della FAIRR initiative. “Le emissioni legate al sistema alimentare hanno un ruolo di primo piano, importante come l’energia e i trasporti, dato che pesano circa un terzo di tutte le emissioni di gas serra, e per il 40 per cento delle emissioni di metano,” ha detto Collier.
Secondo la FAO, a livello globale il solo comparto zootecnico rappresenta il 14,5 per cento di tutte le emissioni di gas serra. Queste emissioni sono dirette o legate alla filiera di approvvigionamento. Nel caso dei bovini da latte, ad esempio, secondo FAIRR il 63 per cento delle emissioni viene dagli allevamenti, che producono grandi quantità di metano. Nel caso delle galline ovaiole, invece, il 78 per cento delle emissioni viene dalle materie prime, in particolare la deforestazione legata alla produzione di mangimi.
“L’agricoltura usa la metà della terra abitabile del pianeta,” commenta Oshni Arachchi, a capo del gruppo per gli investimenti responsabili di Danske Bank. “Se non è gestita con attenzione può comportare deforestazione, perdita di biodiversità e emissioni di gas serra. Una fetta importante di queste emissioni e la maggior parte della deforestazione nel mondo viene dal settore della carne e dei derivati, e la ricerca di FAIRR sottolinea l’urgenza con cui i produttori della zootecnia dovrebbero agire per passare a una produzione più sostenibile.”
Quanta carne mangiamo
Secondo le stime pubblicate nel 2023, sono circa 75 miliardi gli animali di terra macellati ogni anno per scopi alimentari, in costante crescita dal 1961 in poi, a cui si aggiungono almeno 111 miliardi di pesci allevati e un numero che supera i mille miliardi di pesci pescati.
Già nel 2019, con il rapporto sull’uso del suolo e il cambiamento climatico, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Ipcc) aveva raccomandato un cambio di regimi alimentari per centrare gli obiettivi climatici, in particolare adottando diete che permettessero la riduzione o l’eliminazione del consumo di carne e derivati.
Con toni analoghi, gli autori di uno studio del 2020 affermavano che se non cambiamo le nostre abitudini a tavola, prima di tutto riducendo il consumo di carne e gli sprechi, perderemo la sfida climatica, “anche se le emissioni legate ai combustibili fossili fossero azzerate di colpo.”
Le cose sono andate diversamente, fino ad oggi: le stime europee parlano di un consumo di carne previsto in calo (da 69.8 kg nel 2018 a 67 kg nel 2031) mentre gli Stati Uniti hanno raggiunto un record nel 2022 con oltre 120 kg l’anno. Ma a trainare la crescita globale sono i paesi emergenti e le nuove economie, in particolare la Cina, che ha un consumo pro capite ancora inferiore all’occidente (intorno ai 55 kg nel 2021) ma che già consuma da sola 100 milioni di tonnellate l’anno di carne, ovvero il 27 per cento della produzione mondiale.
Braccio di ferro in Europa
L’Europa negli ultimi anni ha proposto una serie di normative per ridurre la produzione e il consumo di carne, nel quadro delle strategie “Farm to fork”, per la biodiversità, per la riduzione delle emissioni di metano, per il contrasto ai cambiamenti climatici, sbattendo molto spesso sul muro della politica e delle associazioni di categoria.
L’episodio più recente riguarda la proposta di una normativa per mettere al bando le gabbie negli allevamenti europei, nata da una raccolta firme che aveva riscosso quasi un milione e mezzo di adesioni. Un’inchiesta di Lighthouse Report, in collaborazione con il Guardian e IRPI media, ha rivelato “un’attività aggressiva da parte di gruppi di categoria come l’European Livestock Voice (ELV) e altri partner, per annacquare parte della normativa e attaccare le opinioni scientifiche non in linea con i loro obiettivi.”
Un nuovo round è previsto il 28 novembre, quando si terrà il trilogo europeo (ovvero una riunione tra commissione, parlamento e consiglio UE) che dovrà decidere la proposta della commissione di applicare la direttiva sulle emissioni industriali (2010/75) anche ai grandi allevamenti bovini sopra i 300 capi.
In vista di questo appuntamento, i presidenti delle associazioni di categoria italiane Intercarne, Assocarni e Italia zootecnica hanno scritto una lettera ai ministri dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin e dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, chiedendo “di agire affinché l’Italia, al tavolo europeo, si schieri per mantenere l’esclusione della zootecnia bovina dalla direttiva.”
Secondo quanto riferisce la stessa Intercarne in un comunicato, i firmatari nella lettera hanno “ripercorso le tappe cui è stata sottoposta la direttiva, sottolineando il successo ottenuto con gli appelli inviati ai parlamentari europei in occasione delle riunioni e votazioni in commissione agricoltura, in commissione ambiente e, infine, in plenaria del parlamento europeo”.
Il controllo delle emissioni bovine sarebbe un passo importante per frenare le emissioni di metano, un gas serra che ha un effetto sul clima 85 volte superiore alla CO2, e che per questo è al centro di una strategia ad hoc dell’Unione Europea per contrastare l’emergenza clima nel breve periodo. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, in Europa l’agricoltura è responsabile da sola del 54% delle emissioni di metano, in gran parte imputabili agli allevamenti bovini.
“La strategia europea sul metano cita le emissioni provenienti dall’agricoltura e dalla zootecnia,” afferma Simona Savini, portavoce per la Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. “Ma non è chiaro come raggiungere gli obiettivi se non si implementano politiche per quantificarle e ridurle.”
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