Dal 2001 l’Europa ha stanziato 2,89 miliardi di euro per gli allevamenti di Pesce, ma dove sono nati gli impianti anche in Italia si sono moltiplicate le critiche per l’impatto ambientale

 

Centinaia di milioni di fondi pubblici sono stati assegnati negli ultimi 20 anni in Italia per lo sviluppo dell’acquacoltura, considerata dalla FAO e dall’Europa un modo sostenibile di produrre cibo, ma l’espansione degli allevamenti di pesce nel nostro Paese è frenata dai dubbi sul reale impatto ambientale.

“Importiamo una grande quantità di prodotti ittici da aree come il Sudest asiatico o altre parti del mondo dove il costo di produzione è minore”, afferma Alessandro Lovatelli, della divisione Pesca e acquacoltura della FAO. Secondo l’esperto, “dobbiamo produrre qui, nei nostri Paesi, usare le risorse naturali che abbiamo e usarle in modo sostenibile per garantire una produzione a lungo termine”.

Secondo la FAO nel 2018 la produzione ittica globale ha raggiunto 179 milioni di tonnellate. I prodotti da acquacoltura rappresentano il 46 per cento della produzione totale e il 52 per cento del pesce destinato al consumo umano. La FAO incoraggia l’ulteriore aumento degli allevamenti di pesce, che considera un modo più sicuro e “pianificabile” di produrre cibo.

Su questa linea, l’Unione Europea da due decenni sostiene convintamente lo sviluppo degli allevamenti ittici: dal 2001 al 2014 ha impegnato 1,17 miliardi di euro per l’acquacoltura e dal 2014 al 2018 ha stanziato altri 1,72 miliardi nell’ambito del Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp).

Dal 2014 al 2020 in Italia sono stati assegnati 173 milioni di euro per gli allevamenti ittici, tra fondi europei, nazionali e locali, mettendo in cantiere un aumento della produzione di 158 mila tonnellate di pesce allevato.

L’impatto ambientale. Nonostante i finanziamenti pubblici, l’allevamento ittico in Italia non ha spiccato il volo, spesso ostacolato dalle normative, in particolare per quanto riguarda i progetti in mare di spigole e orate. In diverse aree dove sono nati gli impianti si è sviluppato un dibattito sull’impatto ambientale delle gabbie, che racchiudono intensivamente centinaia di migliaia di pesci.

Secondo Giuseppe Nascetti, responsabile del centro Ittiogenico delle Saline di Tarquinia, “la produzione di pesce in modo intensivo provoca dei problemi, soprattutto legati all’ambiente in cui vengono collocati gli impianti di acquacoltura o di maricoltura, dovuti al fatto che per allevare queste grandi quantità di pesci c’è bisogno di nutrienti, che vengono messi nelle gabbie ma poi vanno nell’ambiente, insieme ad altri residui”.

Secondo uno studio del 2011 realizzato in alcuni allevamenti di spigole e orate in Grecia, un impianto che produce 100 tonnellate di pesce scarica in mare 9 tonnellate di azoto, dissolto in acqua o come sedimentato sul fondale, insieme ad altri nutrienti, in particolare il fosforo. Nonostante i progressi tecnologici sui mangimi per diminuire questo impatto, diverse ricerche confermano il problema: “Il rilascio in acqua di rifiuti dell’acquacoltura sta diventando un problema per il carico di nutrienti organici e inorganici che porta al deterioramento dell’ambiente”, afferma uno studio datato 2015.

Tra i materiali inorganici si fa riferimento ai farmaci utilizzati negli allevamenti ittici. In Italia è autorizzato l’uso di sei principi attivi, di cui cinque antibiotici e un anestetico, ma anche altri farmaci (tra cui antiparassitari e antifungini) possono in alcuni casi essere usati “in deroga”.

Allevamenti sostenibili. Uno dei produttori che ha utilizzato i fondi europei per l’acquacoltura è la società Aqua di Lavagna, nel Golfo del Tigullio, riviera ligure di Levante. L’allevamento di spigole e orate di Lavagna utilizza delle gabbie offshore, a grande distanza dalla costa, in acque profonde e con forti correnti, per favorire il ricambio d’acqua e la dispersione di azoto e fosforo, evitandone l’accumulo nelle acque e nei fondali del golfo.

Per stare in siti così esposti, però, questo tipo di gabbie deve resistere alle correnti e alle frequenti mareggiate. Questo implica costi di progettazione e gestione molto elevati: “Ci sono due o tre contro”, racconta Roberto Cò, amministratore delegato della società Aqua, “infatti ad oggi l’acquacoltura offshore in siti così esposti è un acquacoltura ancora limitata in termini numerici, il grosso della produzione si trova in aree più riparate”. Nonostante la tecnologia, nel 2018 una mareggiata ha distrutto l’allevamento di Lavagna, poi ripristinato l’anno seguente.

La maggior parte degli allevamenti di spigole e orate in Italia sorge in aree di mare meno esposte alle correnti, in prossimità della costa o all’interno di golfi, come il Golfo di Follonica o il Golfo di Gaeta.

Allevamenti non sostenibili. Proprio il Golfo di Gaeta è stato per molti anni il principale luogo di allevamento di spigole e orate in Italia. All’interno del golfo oggi ci sono circa 50 gabbie per i pesci più diversi altri impianti di mitilicoltura, anche se già dal 2009 la Regione Lazio ha disposto lo spostamento degli allevamenti per l’inquinamento delle acque.

“Le condizioni ambientali delle acque marine costiere del Golfo di Gaeta sono da considerarsi critiche”, si legge nella relazione conclusiva di uno studio realizzato dall’Arpa Lazio e dall’Università la Sapienza tra il 2012 e il 2015. “La forte urbanizzazione, l’espansione turistica, in associazione alle attività agricole, zootecniche e di acquacoltura” secondo lo studio sono i principali fattori che hanno provocato negli ultimi decenni “il deterioramento della qualità ambientale della fascia costiera del golfo”.

Secondo Paola Villa, ex sindaco di Formia, “per quanto riguarda la componente di nitrati e di fosfati nell’acqua, lo studio riporta dati allarmanti e sottolinea il completo depauperamento della prateria di Posidonia del golfo, che si estendeva fino alle isole Pontine”. A fine 2020 il Comune di Formia ha ritirato le concessioni agli impianti nelle sue acque di competenza.

Una situazione analoga si è creata intorno a un allevamento di spigole e orate a terra, situato a ridosso della centrale Enel di Civitavecchia. Sin dal 2003 il Ministero per l’Ambiente ha più volte ribadito la necessità di ridurre gli scarichi di nutrienti in mare a causa della proliferazione algale, suggerendo la realizzazione di un depuratore.

La società che gestisce l’impianto (la Civittica Srl) invece ha ideato un progetto per spostare l’allevamento in mare a 2 km dalla costa, con una scelta che ha suscitato le proteste del Comune di Civitavecchia e di un comitato di cittadini, preoccupati per l’impatto ambientale sulle acque costiere e per la vicinanza con un’area marina protetta. La società non è stata disponibile a incontrarci.

Negli ultimi anni, infine, il principale fronte di espansione degli allevamenti in mare in Italia si è spostato in un altro golfo, quello di Follonica, dove al 2017 lo spazio acqueo destinato all’allevamento a mare si estendeva su circa 17 milioni di metri quadri.

Regole di sostenibilità. Mentre il dibattito è aperto sull’effettiva sostenibilità degli allevamenti di pesce, in particolare in mare, fino ad oggi i fondi europei non sono stati accompagnati da regole precise sull’impatto ambientale.

Nel 2013 l’allora commissario alla pesca Janez Potočnik disse che “la direttiva quadro sulla strategia per l’ambiente marino non stabilisce requisiti specifici per i singoli progetti di acquacoltura, bensì prevede il conseguimento entro il 2020 di un buono stato ecologico delle acque marine, che deve essere garantito dagli Stati membri”.

Nel 2014 un tavolo tecnico, a cui siedono associazioni di categoria e produttori, ha iniziato a lavorare a degli indicatori per la sostenibilità dell’acquacoltura in Europa, nel quadro del programma Production Environmental Footprint. Nel 2016 il gruppo di lavoro ha ammesso dei ritardi ma dopo sette anni, nel 2021, gli indicatori non sono stati ancora pubblicati, e la pubblicazione -secondo quanto abbiamo appreso dalla divisione Pesca e affari marittimi della Commissione- è prevista non prima del 2022.

“Ci sono delle regole per poter impiantare un allevamento di maricoltura, ma non ci sono delle regole precise dovute alla dimostrazione scientifica dell’impatto ambientale di questi impianti”, sostiene Nascetti. “È ancora tutto molto da studiare e da capire”. Secondo Nascetti, “se vogliamo dare davvero dei contenuti allo sviluppo sostenibile, dobbiamo dimostrare che non è sostenibile solo dal punto di vista economico ma soprattutto ambientale”.

I nuovi investimenti. L’Europa ha pianificato per il 2021-2027 un nuovo round di finanziamenti per lo sviluppo dell’acquacoltura. Nel presentare il nuovo Feamp, la Commissione ha annunciato di voler mettere al centro la sostenibilità ambientale.

“In Europa c’è molta sensibilità tra i consumatori sull’importanza della conservazione ambientale”, ha detto Lovatelli. Il timore del settore però è che dall’Europa possano arrivare regole ambientali stringenti che rendano meno competitivi i produttori rispetto a quelli dei Paesi extra-UE che esportano in Europa: “Devono esserci regole per assicurare che l’allevamento sia sostenibile”, ha detto Lovatelli, “ma bisogna stare attenti a non mettere troppa pressione sulle aziende altrimenti non saremo competitivi”.

Secondo Pier Antonio Salvador, presidente dell’Associazione Piscicoltori Italiani (API): “Ci dev’essere un giusto bilanciamento tra i soldi che vengono dati e nuove restrizioni che vengono imposte. Se io seguo una legislazione restrittiva come quella Italiana, questo deve far capire alla gente che è una garanzia totale, tutto il resto è in più, non è una necessità”.

Poche settimane fa il Ministero per le Politiche Agricole ha pubblicato delle linee guida per l’acquacoltura sostenibile, realizzate in collaborazione con l’API. Le linee guida però non richiedono la regolare verifica degli scarichi di nutrienti in mare e rimandano agli indicatori europei, che non saranno pubblicati prima del 2022.

Servizio realizzato con il supporto di journalismfund.eu, organizzazione no profit che sostiene il giornalismo investigativo in Europa. L’inchiesta è stata realizzata in collaborazione con l’organo di giornalismo investigativo scozzese The Ferret.

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